Comincia subito a leggere “L’amante del diavolo”

Prologo

Alla luce delle candele, seduta sul pavimento, cuciva.

L’inchiostro sull’ultimo foglio era ancora fresco, ma si sarebbe asciugato per tempo. La copertina di pelle di capra che proteggeva il libro poteva essere facilmente staccata per aggiungere nuove pagine: era stata pensata per crescere insieme al libro.

La giovane donna intenta a cucire era molto stanca quella sera, ma non poteva fermarsi. Avrebbe dovuto finire il lavoro e partire. Doveva portarlo al sicuro, lontano dalla pestilenza che affliggeva la città.

La peste nera, con ogni probabilità arrivata attraverso quel mare che insieme proteggeva e minacciava Venezia fin dalla sua primordiale esistenza, aveva invaso le calli tortuose con una rapidità mostruosa. Le vittime erano migliaia e la febbricitante attività che normalmente affollava i canali non era scomparsa, si era piuttosto trasformata: adesso si trasportavano meno merci in cambio di un’enorme quantità di cadaveri.

Cucendo, accarezzava quelle pagine, quel mosaico di parole e disegni che per molti, lunghi anni erano stati la sua guida. Seguiva col dito le parole dipinte, studiava i disegni per non dimenticarne nemmeno un dettaglio e lo faceva sempre con l’entusiasmo della prima volta.

Le pagine erano state compilate fittamente, nessuno spazio andava sprecato; vi erano pergamene miniate cui erano stati graffiati via i testi sacri per riempirle di osservazioni mediche, glosse che spiegavano i dettagli, sanguigne di parti anatomiche così precise che quasi mettevano i brividi e una lista di piante medicinali corredate di disegni e ricette da far invidia al migliore degli erboristi.

E poi venivano i disegni del grembo materno che raffiguravano come in esso crescesse la vita. Non sapeva da quali conoscenze empiriche nascessero quegli schizzi, quali ne fossero stati i modelli, e non era nemmeno sicura di volerlo davvero sapere. Averli potuti studiare le era bastato per più di vent’anni ed era stato sufficiente anche per quanti aveva aiutato.

Cuciva e pensava ai fogli che aveva aggiunto, alla conoscenza delle piante esotiche che il luogo dove era andata a vivere le aveva regalato. Cuciva e rileggeva stralci di quella storia che non doveva andare perduta.

Cuciva, e pensava alle pagine a venire.

I

Bellezza

Dopo aver invano cercato di tranquillizzare i due uomini in attesa in cucina, la sorella della partoriente rientrò agitatissima nella stanza con un coltello ben affilato.

Si apprestava a infilarlo sotto il materasso.

«Che diavolo stai facendo?» le chiese bruscamente la levatrice.

«Non mi avevate chiesto il coltello più affilato di casa? Eccolo. Lo metto sotto il materasso perché tagli il dolore.»

La levatrice scosse il capo con un’espressione che evocava insieme compassione e dispetto.

«Bianca, non essere stupida. Metti il coltello nell’acqua bollente e fai lo stesso con l’ago e il filo che ti ho chiesto. E non guardarmi come se non capissi quello che dico, muoviti, non abbiamo più tempo da perdere.»

La donna fece quello che le era stato ordinato; aveva troppa paura per disobbedire all’unica persona che sembrava sapere cosa fare. Ma non era sicura che quella mammana la contasse giusta. Sì, certo, aveva fatto partorire tutte le donne del paese, lei compresa, eppure c’era qualcosa che la inquietava. Sapeva aggiustare le ossa, conosceva erbe e rimedi sconosciuti ai più ed era perfino in grado di leggere e scrivere!

Non osava dirlo per paura che il suo pensiero divenisse reale, non si azzardava quasi a pensarlo cercando di allontanare quella strana idea ogni volta che le veniva in mente, e non voleva ascoltare le voci sempre più insistenti che dicevano che quella levatrice fosse una strega.

Ecco, lo aveva pensato di nuovo!

Proprio adesso che sua sorella aveva più bisogno di lei. Scacciò quel cattivo pensiero e cercò di rendersi utile tirando fuori dall’armadio delle fasce pulite. Il bambino ne avrebbe presto avuto bisogno.

Maria, urlava di dolore.

Era una giovane dal fisico sano e robusto con un viso rotondo e piacevole che però, in quel momento, le doglie avevano completamente trasfigurato. Con i suoi grandi occhi scuri guardava implorante la levatrice e, quando la donna le palpeggiò il ventre accorgendosi che il bambino si sarebbe presentato podalico, riconobbe un’ombra passare sul volto di chi avrebbe dovuto aiutarla. Sperò di essersi sbagliata.

La seconda volta che Bellezza controllò il canale del parto, le donne l’avevano vista sbiancare, e non era cosa che accadesse frequentemente. Qualche istante dopo il suo volto, pur sempre preoccupato, aveva però assunto un’espressione decisa.

«Bianca, vai a prendere dell’acqua bollente, un cucchiaio di legno, dell’aceto e del vino. Voi due, invece, potete uscire» ordinò la levatrice alle altre donne presenti.

Lisa, la madre della partoriente, che non sembrava in grado di reggere quella situazione, e la consuocera, Annina, da principio mossero una debole resistenza ma poi, seppur di malavoglia, si decisero ad andare.

Quando Bianca rientrò con ciò che le era stato chiesto, la levatrice accostò alle labbra di Maria un bicchiere di vino e, subito dopo aver mischiato l’acqua all’aceto, si lavò le mani.

«Mettile il cucchiaio fra i denti e vieni qui alla mia sinistra con il lenzuolo per accogliere il bambino» ordinò alla sorella.

Bianca, sempre più confusa, obbedì senza fiatare.

La levatrice fece sdraiare Maria che fino allora era rimasta semiseduta, le denudò la pancia fino al seno, le accarezzò i capelli sussurrandole parole d’incoraggiamento e prese il coltello dal catino con acqua e aceto. Poi, incise.

Un getto di sangue le schizzò addosso con violenza, macchiandole sinistramente il collo e parte del corpetto. Maria svenne. E forse fu meglio così.

Più di una volta aveva estratto bambini vivi dall’addome di madri che non ce l’avevano fatta, ma questa volta era diverso. Aveva preso una decisione. Non si sarebbe arresa. E in quelle condizioni, con il bambino che si presentava podalico e la placenta davanti al collo dell’utero, Maria sarebbe sicuramente morta. Doveva tentare l’impossibile per salvare entrambi.

Anche Bianca per poco non svenne. A dire il vero, non ne ebbe il tempo, infatti, in pochi istanti si ritrovò tra le braccia un neonato roseo e paffuto che cominciava a piangere e del quale doveva occuparsi.

La levatrice intanto aveva estratto la placenta e stava preparando ago e filo per ricucire l’utero che usciva dalla pancia della partoriente. Si trattava di una pratica estrema che, con ogni probabilità, nessuno aveva tentato prima di lei. Fin dalla Roma antica e per i molti secoli successivi si era praticato il taglio cesareo su donne morte con lo scopo di salvare il bambino, ma nessuno lo aveva mai tentato su una partoriente ancora viva. Seguendo una sua intuizione aveva poi deciso di ricucire prima l’utero e poi suturare il ventre. A lavoro finito rovesciò sulla ferita dell’aceto e la ripulì con cura. La fasciò con delle bende pulite che ordinò di cambiare ogni giorno.

Il bambino stava bene e la madre aveva ripreso conoscenza. La levatrice si lasciò cadere su una sedia e grosse lacrime silenziose presero a scorrerle sul viso.

Per molto tempo in paese e in tutto il circondario non si parlò d’altro: di Bellezza Orsini, la levatrice che aveva praticato un taglio cesareo su donna viva salvando sia la madre sia il bambino. Inevitabilmente però, tra l’eccitazione per quell’evento straordinario cominciò presto a infiltrarsi il sospetto.

Qualcuno prese a dire che si trattava di miracolo, qualcuno di stregoneria, fatto sta che Maria sarebbe sopravvissuta. Fino al parto successivo, almeno.

Alcuni dei parroci dei paesi circostanti contribuirono a fomentare l’idea che fosse stato compiuto un affronto all’Altissimo, un’azione contro la volontà del Signore che, evidentemente, aveva disposto altrimenti. E così Bellezza iniziò a essere guardata non più con il rispetto dovuto alla straordinarietà delle sue azioni, ma con il sospetto che nasce dalla paura per ciò che non si conosce.

L’ignoranza e la suggestione collettiva fecero il resto.

Sebbene cominciasse a perdere il fulgore della giovinezza, la levatrice era ancora una donna di una bellezza quasi prodigiosa. La perfezione dell’ovale del volto, gli occhi scuri grandi e profondi, le labbra carnose e una cascata di capelli ricci e neri, ora appena increspati da fili argentati, le avevano fatto guadagnare, fin dalla sua prima giovinezza, il soprannome di Bellezza, e persino lei aveva ormai dimenticato quale fosse il nome con il quale era stata battezzata.

Era una donna singolare, Bellezza.

Rimasta orfana ancora in fasce, pur essendo una femmina, non era stata affidata alle suore, ma allevata dai frati all’abbazia di San Paolo. Di lei s’era occupato fin dal primo istante suo zio, Frate Flaminio Orsini con l’aiuto di Pia, una contadina che abitava nel borgo sviluppatosi attorno all’abbazia.

Le male lingue sospettavano che la bambina non fosse la figlia illegittima di suo fratello ma che, in realtà, il religioso ne fosse il padre e che per questa ragione fosse stata affidata a lui dopo la morte della madre. Nessuno però poté mai averne la certezza. Come fu o come non fu, certo è che Bellezza crebbe con i frati fino ai suoi diciassette anni imparando da Flaminio Orsini tutto ciò ch’egli sapeva sulle proprietà delle erbe e sul loro impiego.

E non solo.

Pareva, infatti, che Frate Flaminio fosse una sorta di medico guaritore, a cui in molti si rivolgevano in cerca di rimedi ai propri mali o per farsi riaggiustare le ossa. Lui aveva insegnato a Bellezza a leggere e a scrivere e, avendo scoperto nella nipote un talento naturale per il disegno, l’aveva spinta a copiare erbe e piante sia dai suoi manuali di erboristeria sia dal vivo, procurandole il materiale necessario. Le capitava di disegnare su pergamena, su carta, sul retro di pagine miniate e, qualche volta, persino su sottilissimi papiri. Frate Flaminio le aveva insegnato a cucire insieme quei fogli, pur obbligandola a imparare sempre a memoria tutto ciò che vi era scritto.

«Ricorda, nessuno può portarti via quel che esiste nella tua testa» le ripeteva ogni volta che la sentiva lamentarsi o sospirare perché avrebbe preferito andar nei prati a inseguire farfalle.

Così l’orfanella aveva imparato molto di più di quanto ci si potesse mai aspettare da una bambina; sapeva leggere e scrivere, far di conto, disegnare a colori, riconosceva ogni erba e le sue proprietà, era in grado di preparare medicamenti e unguenti, sapeva aggiustare le ossa, ma fu solo quando compì quattordici anni che Flaminio la rese partecipe del suo più grande segreto.

Alcune notti, nelle ore più buie, quando ogni cosa nell’abbazia era avvolta nel silenzio e i frati riposavano o pregavano nelle loro celle, il frate erborista tornava nel suo laboratorio dove, uno degli scaffali sui quali facevano bella mostra alambicchi e boccette di ogni tipo, vasi di erbe e libri e molto altro ancora, nascondeva in realtà una porta dietro la quale si celava un’altra stanza, non molto ampia ma ben organizzata, con un tavolo da lavoro e vari ripiani che accoglievano molte candele, coltelli, punteruoli e arnesi da falegname fra cui persino una grossa sega.

La prima volta che Bellezza dovette entrarvi, scappò fuori pochi istante dopo, in preda al terrore e a violenti conati di vomito.

 

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