La cultura italiana secondo Giada Trebeschi: un’intervista di Dario Villasanta sul blog scrivere senza parole
(di Dario Villasanta)
Se Giada Trebeschi fosse una popstar, probabilmente sarebbe l’Irene Grandi frizzante e irriverente degli inizi; se fosse un’attrice di oggi, una Paola Cortellesi dai tempi perfetti e a suo agio in ogni personaggio; se fosse invece un personaggio di fantasia… Beh, forse è lì che sarebbe proprio e soltanto lei, la Giada Trebeschi che appare per molti versi un soggetto inventato, una protagonista di qualche storia affascinante e fantasiosa. Perché, vi chiederete? Provate a rispondervi da soli, leggendo cosa e come mi risponde. Di paura, la Giada, non ne ha.
Storia e narrativa: svago per divulgare, o svago di classe?
Nessuno dei due. La Storia è capire chi siamo, e la narrativa ricordarci cosa siano i sogni.
Montanelli diceva: “Gli italiani sono un popolo che non ha memoria, e un popolo che non ha memoria non ha un futuro”. Citava così un suo maestro in realtà, e già così capiamo qualcosa in merito. Tu vivi in Germania, paese con ben altra cultura di se stesso: che popolo sono oggi gli italiani, visti da Giada Trebeschi?
Parafrasando Cicerone direi che non sapere che cosa sia accaduto nei tempi passati, sarebbe come restare per sempre un bambino e dunque restare per sempre nell’infanzia della conoscenza. Ed è esattamente quello che, purtroppo, sta accadendo in occidente, Germania compresa anche se ben più lentamente che in Italia.
Giada, dopo aver pubblicato La dama rossa con Mondadori sei passata, con ben altro ruolo, a una casa editrice tedesca (Oakmond Publishing). Cosa cambia nel modo di fare editoria tra questi due mondi?
L’entusiasmo, la libertà e la volontà di osare che, in una realtà come il gigante Mondadori vengono inevitabilmente inscatolati e chiusi in qualche polveroso scantinato.
Qualcuno recita da tempo un de profundis della cultura italiana. Il solo modo di attribuire (solo a chi li conosce, per giunta) i benefici della Legge Bacchelli ne è indicazione esaustiva. I pregiudicati non possono accedervi, per esempio. Per cui, un Carlotto non potrebbe mai ottenerla nonostante tutti sappiamo chi sia. Quindi mi chiedo: ma in un’epoca di talent, dobbiamo proprio ridurci alla mediocrità per essere qualcuno, o c’è speranza – e quale – per chi fa davvero cultura?
Per essere qualcuno basta essere se stessi. I mediocri restano fra gli ignavi anche se vanno ai talent.
Tu che di gavetta ne hai fatta, sia in teatro che negli studi – e mi riallaccio al tema dei Talent – dimmi un po’: ma adesso che, sia i social come l’autopubblicazione offrono un palco a buon mercato a chiunque lo desideri, tu in questo vedi: a) una risorsa di talenti altrimenti inespressi; b)un insulto al lavoro professionale ; c) un’espressione di libertà del tipo ‘meglio scrivere che cazzeggiare al bar’; d) “penso di peggio ma non te lo dico…”
Credo che, come sempre, la virtù stia nel mezzo. In ogni caso, secondo me sono una risorsa e non credo si debba sottovalutarli. Le case editrici, che qualche tempo fa erano a guardia della qualità, trovo l’abbiano totalmente persa di vista e dunque il lettore fa bene a cercare altrove.
In Germania, dove vivi ora, sono abituati a parlare inglese fin da piccoli e a rapportarsi in modo più intenso con la cultura in genere. Ti riesce un raffronto con la scuola italiana di oggi? Mi risultano differenze abissali tra l’educazione – soprattutto per le arti – tra tedeschi (europei in genere) e italiani. Mi spieghi perché nella culla della cultura occidentale si permette questo scempio, dove chi è artista è un disoccupato fancazzista mentre all’estero è un artista, e basta?
Oddio, non è che cantino tutti Bach con lo spartito, ma sull’inglese hai ragione. Se vogliamo mettere a confronto i due sistemi educativi posso dire che in Germania si insegnano fin da piccoli la precisione e la disciplina, soprattutto su se stessi, per arrivare a un obiettivo. In terza elementare, colorare le figure geometriche fuori dalle righe ti fa togliere mezzo punto per esempio. In Italia si lascia però più spazio alla creatività e per questo, lo dico sempre, la scelta migliore sarebbe guidare una macchina tedesca disegnata da un italiano.
La questione sull’artista è più complicata, e credo si debba cercare nel rispetto del lavoro e del tempo dell’altro qualsiasi cosa faccia. In Germania il giardiniere viene pagato, il medico, l’avvocato e anche, pensa un po’, lo scrittore che va a parlare a un evento. Perché anche il suo tempo ha un valore, come il suo lavoro e a nessuno verrebbe mai in mente di scambiarlo con la famosa visibilità a gratis.
Domanda maligna: l’esplosione di romanzi storici, generalmente a sfondo erotico (per contratto, molto spesso) cosa ti fa pensare?
Che gli editori dovrebbero avere il buon senso chiedere a chi di storia ne sa davvero qualcosa, se non di scrivere i suddetti romanzi almeno di controllarne le molte castronerie ed emendarle. Se poi vogliono pure che sia un erotico decente sarebbe meglio farlo scrivere a una donna.
Permettimi una puntura professionale: gli autori italiani di oggi, di qualsiasi livello siano (commerciale, non altro) hanno secondo te un atteggiamento davvero professionale? E in cosa consiste la differenza con quelli esteri?
La grossa differenza è il provincialismo. Qualche mese fa ho scritto un articolo proprio su quest’argomento e ne riporto qui una parte perché risponde perfettamente alla domanda.
“Ho vissuto in molti posti in Italia e soprattutto all’estero e, nella mia esperienza, gli intellettuali italiani, sia in ambito universitario sia artistico e letterario, sono i più autoreferenziali e autocelebrativi che io abbia mai incontrato. È come se la classe culturale si considerasse una casta, un circolo ristretto e chiuso difficilissimo da penetrare i cui membri si compiacciono del solo farne parte senza mai guardare altrove fuorché per critiche che, troppo spesso, basano sui sentito dire e su certezze ampiamente discutibili.
Di solito in questi circoli non vi è uno scambio di vedute, essi non parlano del loro lavoro, delle loro conquiste tecniche, delle loro ricerche ma parlano di sé, esattamente come farebbe il ricco mezzadro di paese che vuole darsi un tono da gran signore senza vedere o senza voler ammettere nemmeno con se stesso che un asino travestito da cavallo resta pur sempre un asino.”
A mio parere, adagiarsi nel calduccio delle proprie certezze e snobbare le visioni altrui, atteggiamento tipico di molti fra i cosiddetti intellettuali italiani è il nuovo provincialismo, è la vacua fissità da rifuggire, è il modo migliore per rallentare la crescita culturale infilandosi in un circuito chiuso, che gira solo intorno a se stesso, che non può portare da nessuna parte, che non crea novità e non arriva a nessun risultato come fosse un cane che cerca di mordersi la coda.
Ultima domanda, e se decidi di rispondere declino ogni responsabilità: prova a spiegare a un lettore accanito di Fabio Volo e Moccia perché potrebbe piacergli di più il tuo Vampiro di Venezia che non un libro in bianco. (Il ‘non glielo spiego’ non è consentito).
Caro lettore, non credi sia venuto per te il momento di passare a letture più da adulto? L’adolescenza, anche in letteratura, non dura per sempre.