«Siamo sulla soglia di una delle più grandi epoche che l’umanità abbia mai vissuto, l’epoca della Grande Spiritualità. Al tempo in cui sembrava che la Materialità fiorisse con la massima energia e avesse riportato una grande vittoria, in quel XIX secolo che da poco si è concluso, si formarono senza che nessuno se ne accorgesse i primi elementi nuovi dell’atmosfera spirituale che fornirà e già fornisce il necessario alimento alla fioritura dello spirito»[1].
Ed è proprio a questa fioritura dello spirito che dedico questo articolo seguendo il percorso dello spirito italiano del novecento in una delle sue manifestazioni più simboliche ed intense quale quella che si rivela dalla ricerca pittorica.
Il pittore, infatti – parafrasando Matisse – dipinge per tradurre nei colori e nel disegno le proprie emozioni, le proprie sensazioni e le reazioni della propria sensibilità esprimendo tutto il proprio sentire attraverso la creazione di un «oggetto» denso di significati simbolici. Ed è proprio la liberazione di questi significati simbolici insieme con quella delle fauves che si nascondono nell’artista a caratterizzare l’arte del XX secolo.
In nome di quella libertà espressiva nata in seno alla Francia impressionista, gli artisti italiani – come del resto tutti gli artisti europei – assumeranno, infatti, una posizione estrema ed esplosiva insieme, che sfocerà nella teoria dell’arte intesa come espressione esclusiva dell’io. L’artista assume allora il ruolo di un veggente che osserva la realtà e la «vede» in un certo modo, diverso da tutti gli altri e che la rappresenta soggettivamente proiettando in essa la propria visione senza obbedire a regole esteriori convenzionali.
La rappresentazione fortemente soggettiva della realtà, esprimendo il sentimento individuale dell’artista, deforma coscientemente la realtà per far risultare evidente che ciò che si vede nella tela altro non è che la proiezione della visione della realtà così come la vede l’artista che, in essa, descrive la propria vita interiore.
Ma se l’arte è solo estrinsecazione dell’intimo dell’artista e non rappresentazione del mondo esteriore in quanto tale, allora bisogna avere il coraggio di superare i limiti, di andare oltre, di abolire completamente anche quelle barriere che possono esserci nella rappresentazione, seppur personale, degli oggetti dipinti, visualizzando con linee e colori la complessità dei sentimenti che si agitano nel più profondo dell’animo dell’artista, agendo psicologicamente sull’inconscio di chi osserva.
Il pittore diviene così una sorta di musicista il quale, non essendo schiavo di banali imitazioni naturalistiche, è libero di manipolare i suoni a piacimento organizzando il proprio sentire secondo una logica interna assolutamente personale. A ben vedere la comunanza di intenti fra la musica e l’immagine è, soprattutto nella concezione artistica fra otto e novecento, così spontanea che avviene persino uno scambio reciproco di termini: si parla in musica di suoni scuri o chiari mentre in pittura si cominci a parlare di tonalità di colori squillanti, cantanti e così via.
L’artista osserva il nostro essere modificarsi continuamente e in modo irreversibile, ed è consapevole che tutto, in noi e fuori di noi, si trasforma in maniera così veloce e inarrestabile tanto che viene spinto alla rappresentazione del movimento piuttosto che della stasi originando, da questa, sia la quarta dimensione tipica del movimento cubista che il suo opposto cioè la rarefazione dell’atmosfera così evidente nella pittura surrealista e metafisica.
La velocità è però non solo quella naturale del cambiamento della realtà fenomenica ma anche quella generata dalle innovazioni tecnologiche, dalla macchina, che, grazie al suo motore meccanico, moltiplica le forze dell’uomo inebriandolo di potenza poiché, per dirla con Marinetti, la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. La velocità delle macchine non cambia soltanto la visione dello spettatore ma anche quella di chi, trasportato velocemente da un luogo all’altro, osserva dall’interno il continuo cambiamento dei punti di vista, delle prospettive, dei volumi che offrono al pittore spunti sempre nuovi.
Così come spunti sempre nuovi offre anche quella visione che rende avulsi gli oggetti dalla logica ambientale in cui siamo abituati a vederli, suscitando una sottile angoscia, un’inquietudine, quasi una sorta di paura in quanto si è costretti a confrontarsi con qualcosa di totalmente a-logico e straordinariamente inaspettato.
Inaspettato è però anche lo shock cui un movimento come quello di Tzara sembra tendere poiché, in questa visione, non ci si interessa tanto al valore artistico quanto allo stupore causato nello spettatore per allontanarlo dalle sue pigre e convenzionali abitudini mentali. E inaspettato è anche quell’automatismo psichico puro attraverso il quale si tenta di chiarificare il funzionamento del pensiero al di là – come disse Breton – di ogni preoccupazione estetica e morale. Evidente è, in questo caso, la forte comunanza con il metodo psicoanalitico freudiano secondo il quale per raggiungere la libertà è necessario lasciarsi guidare dall’inconscio, così come succede nel sogno, e solo quando le immagini sono libere di fluire senza un legame apparente rivelano la nostra vera realtà recondita, così surreale da essere, a volte, ignota perfino a noi stessi. Il sogno però non è fatto solo per mettere a nudo i segreti, le inquietudini o le angosce dell’uomo ma anche – per dirla con Chagall – per poter raggiungere, inseguendo la bellezza e la purezza dei sogni stessi, il magico, il soprannaturale, il miracoloso.
Lo spirito del novecento sarà però costretto a compiere una scelta: rifugiarsi nel sogno barricandosi dietro ai suoi confini oppure risvegliarsi per affrontare il ritorno all’ordine imposto dai regimi totalitari che costringeranno gli artisti a guardare nuovamente alla realtà in un tentativo di realismo che denuncerà gli orrori della guerra e quelli della società.
Dopo la seconda guerra mondiale la sperimentazione continuerà ad essere implementata seguendo sempre nuove strade ma senza mai allontanarsi da quello spirito che, pur ribellandosi alle regole del passato, non le dimenticherà mai ma che, anzi, proprio su di esse e sul nuovo modo di interpretarle baserà la propria rinascita; e così, come una sorta di novella Fenice risorgerà dalle proprie ceneri, rinnovandosi senza fine, poiché, come disse Rouault, nulla è antico, nulla è nuovo, se non il raggio della grazia sotto il quale batte il cuore di un uomo.
[1] V. Kandinskij – F. Marc, Prima stesura della prefazione all’Almanacco del Cavaliere Azzurro, 1911.