Quando si parla di scrittura bisogna fare molta attenzione, essa infatti non è la sola responsabile del testo, come si è semplicisticamente portati a credere, poichè è soltanto la sua relazione con la voce a renderla reale. Questa relazione è ben visibile e assolutamente imprescindibile nell’analisi dei codici medioevali, i quali riportano tramite segni scritti, qualcosa che veniva dettato, qualcosa che solitamente era la memoria e la voce di cantori o letterati a trasmettere.
Un ulteriore legame è creato dal fatto che pochissimi, in epoca medioevale, erano in grado di leggere (persino la propria scrittura!) e quei pochi lo facevano quasi sempre ad alta voce sia per gli altri che per se stessi, è infatti ancora lontano il tempo in cui la lettura verrà interiorizzata. Ma anche leggere ad alta voce poteva essere problematico, era necessario capire la calligrafia del copista, interpretarne le abbreviazioni e i rari segni di punteggiatura apposti al testo, comprendere le citazioni… senza dimenticarsi di dare un’occhiata alle glosse che riempivano la pagina.
Le glosse hanno un forte legame simbolico con la voce, esse infatti ripropongono quella situazione che si verifica durante un discorso: è come se esse incarnassero le diverse voci chiamate ad esprimere il proprio parere, le diverse persone che filtrano la realtà attraverso i propri occhi e che poi non svaniscono ma si lasciano scrivere, per essere reinterpretate e rifiltrate da chi si accinge ad ascoltarle o, meglio, a leggerle.
Per molto tempo la scrittura ha conservato un carattere magico-rituale che a volte ritroviamo tutt’oggi quando siamo di fronte ad uno scritto in una lingua che utilizza segni diversi dai nostri, mettiamo l’arabo, il russo o il cinese, segni a noi incomprensibili se non li abbiamo studiati, segni che, come le rune[1] ci portano davanti a un qualcosa di misterioso e di magico. Questa sensazione è un po’ quella che provavano nel medioevo, e forse anche oggi, gli illetterati che si ritrovavano di fronte a un codice.
Il forte simbolismo che ne deriva è dovuto alla carica semantica che viene data a segni misteriosi, essi infatti si trovano a rappresentare, loro malgrado, un qualche arcano anatema o una formula per il filtro d’amore o ancora un presagio che, decodificato, rivelerà il futuro a chi vorrà ascoltarlo. E proprio il mistero dei segni-simboli si rivelerà in ogni tempo importante mezzo di splendide interpretazioni della fantasia popolare.
Le foglie della Sibilla sparse dal vento avevano dei segni che dovevano essere ordinati e, soprattutto, interpretati; le iscrizione su fibule, spade o cofanetti germanici erano formate da rune che, assieme al loro significato linguistico, ne portavano uno magico-simbolico più ampio e ben più importante. Allo stesso modo i codici medioevali conservano questo aspetto magico che solo pochi sono in grado di utilizzare correttamente.
Nemmeno i nobili erano in grado di leggere, essi si servivano di maghi-lettori che leggevano ad alta voce, che decodificavano i testi per renderli fruibili anche a chi non era in grado di leggerli da solo.
Si può dunque capire perchè lo Zunthor affermi che «la pratica medievale della scrittura non si emancipò se non molto lentamente dalla servitù della voce»[2].
È ora necessario soffermarsi un momento sul personaggio del copista il quale necessariamente filtra attraverso il proprio essere ciò che gli viene dettato o indicato di copiare.
Se il testo gli viene dettato egli lo interiorizza e se ne fa interprete nel momento in cui il testo deve passare dall’udito allo scrivere. Se invece lo copia da un altro codice, egli ne deve interpretare la scrittura le abbreviazioni, dà una letta alle glosse e spesso glossa lui stesso, diventando filtro, più o meno forte, attraverso il quale viene visto il testo originario. In entrambi i casi comunque, il copista si fa interprete, è come se traducesse da una lingua all’altra fissando nel codice il linguaggio di una comunicazione diretta[3].
Tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo con l’incremento dei codici, anche di produzione urbana tramite la nuova figura degli Stationarii[4] e lo sviluppo delle università, le biblioteche, soprattutto quelle universitarie, si trovano a dover accogliere molti studenti e, di conseguenza, sono costrette a emettere regolamenti che impongono la lettura silenziosa. Il leggere si interiorizza e spesso anche in solitudine chi frequenta gli ambienti scolastici mantiene questa pratica ma, comunque sia, la lettura orale resterà la regola per la maggioranza delle persone almeno fino al XV secolo.
Con la lettura silenziosa viene a crearsi una sorta di intimità fra il lettore e il testo, la lettura si personalizza e questo favorisce l’uso e la produzione di testi anticonformisti che il lettore si sente libero di leggere.
Nel XIV secolo le donne, ovviamente di ceto sociale elevato, cominciano a diventare un’audience importante perché, disponendo di più tempo rispetto agli uomini sempre impegnati in battaglie, politica o battute di caccia, ed essendo comunque più inclini a passatempi tranquilli, imparano a leggere e si trastullano con libri sempre più spesso scritti per loro. Sarà questa nuova condizione a far scrivere allo stesso Boccaccio:
«E chi negherà questo (il Decameron), quantunque egli sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? […] Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose […] il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano, e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgono diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri.»[5]
Le donne leggendo combatteranno dunque la noia e la tristezza a differenza degli uomini che:
«Essi (gli uomini), se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da aleggiare o da passar da quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare attorno, udire e vedere molte cose, uccellare, cacciare o pescare, cavalcare, giucare e mercatare, de’ quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l’animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo…»[6]
Molti dei codici commissionati dai nobili avevano miniature che illustravano il testo e non si spiega come mai, non essendo in grado di leggere, le facessero fare pur non utilizzandoli personalmente; a questo punto, sembra un po’ troppo superficiale la spiegazione che le figure aiutano a capire il testo, al contrario appare invece interessante l’ipotesi che considera il pregio e l’importanza che in questo modo i codici vengono ad assumere poiché, essendo mercanzia di lusso, divenengono una sorta di status symbol.
La scrittura ferma sulla carta ciò che i moti di spirito fanno dire agli uomini e dunque essa resterà sempre in qualche modo legata alla voce, interiorizzata o no, poiché è la voce che indica le parole ed «è con la parola e solo con la parola che si manifesta pienamente l’umano»[7].
[1] Per maggiori informazioni vedi: A .M. Luiselli Fadda, Tradizioni manoscritte e critica del testo nel Medioevo germanico, Laterza.
[2] P.Zumthor, La lettera e la voce, Bologna. il Mulino, 1990, p.153.
[3] Ivi p.139.
[4] Sorta di scriba che fa parte della corporazione universitaria o lavora per essa copiando i testi di studio approvati dai professori e divisi in fascicoli per ottenere una produzione più rapida.
[5] G. Boccaccio, Decameron, 1353, Citazione dal proemio.
[6] Ibidem.
[7] P. Zumthor, op. cit., p.153.